Jack Johnson | |||||||
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Nazionalità | Stati Uniti | ||||||
Altezza | 184 cm | ||||||
Peso | 94 kg | ||||||
Pugilato | |||||||
Categoria | Pesi massimi | ||||||
Termine carriera | 1º settembre 1938 | ||||||
Carriera | |||||||
Incontri disputati | |||||||
Totali | 102 | ||||||
Vinti (KO) | 71 (40) | ||||||
Persi (KO) | 13 (7) | ||||||
Pareggiati | 9 | ||||||
Palmarès | |||||||
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John Arthur Johnson[1], detto Jack (Galveston, 31 marzo 1878 – Raleigh, 10 giugno 1946), è stato un pugile statunitense.
Nato da una famiglia di ex schiavi della regione di Galveston, in Texas, iniziò la sua carriera da pugile combattendo nelle battle royal, ossia gli incontri d'intrattenimento tra neri per un pubblico di bianchi. Debuttò come professionista nel 1897, all'età di 19 anni, e nel 1903 conquistò il "titolo mondiale dei pesi massimi di colore", l'unico consentito agli atleti afroamericani. Dopo una serie di convincenti vittorie, nel 1908 divenne il primo pugile di colore e il primo texano a vincere il titolo del mondo di boxe dei pesi massimi, quando sconfisse il campione in carica Tommy Burns. Per questa ragione fu considerato una sorta di simbolo dell'orgoglio razziale dei neri all'inizio del ventesimo secolo, soprattutto poiché nel periodo erano ancora in vigore le leggi Jim Crow.
Nel 1910 fu protagonista in ciò che divenne noto come "incontro del secolo", per via anche dell'enorme caratura del suo avversario – l'imbattuto James J. Jeffries, bianco – il quale lo affrontò per "difendere l'orgoglio bianco". Johnson ne uscì vittorioso e ciò lo aiutò a rendere ulteriormente popolare il suo nome, oltre a dare inizio ad un progressivo ingresso di campioni mondiali neri nel panorama pugilistico dell'epoca. Mantenne il titolo mondiale per quasi sette anni, prima di essere sconfitto da Jess Willard nel 1915. Soprannominato "il gigante di Galveston" (The Galveston Giant),[2] la sua onnipresenza sulla stampa, affiancata al suo eccentrico stile di vita fuori dal ring, contribuirono a renderlo uno dei primi esempi di "campione moderno".
Attirò una serie di critiche nel 1912, quando fu accusato di aver violato la legge Mann, che proibiva di "portare donne da uno Stato all'altro" per "propositi immorali". Le accuse erano tuttavia considerate motivate da discriminazione razziale; benché vi fosse mancanza di prove, una giuria composta da soli bianchi lo condannò ad un anno di carcere. Johnson cercò di evitare l'arresto lasciando gli Stati Uniti e vivendo, insieme alla moglie Lucille Cameron, in esilio sino al 1920. Lo stesso anno si consegnò alle autorità statunitensi e, dopo aver scontato la pena, tornò a combattere, senza però ottenere grandi risultati.
Nel maggio 2018, 105 anni dopo la sua condanna, Johnson è stato graziato dal presidente Trump, alla presenza dell'attore Sylvester Stallone e di passate e presenti glorie della boxe.
Disputò il suo ultimo incontro professionistico nel 1938, all'età di 60 anni. Grande amante di automobili, morì tragicamente a seguito di un incidente stradale il 10 giugno 1946.
Dopo la sua morte divenne un'icona del Black Power negli anni sessanta e settanta. Nat Fleischer, fondatore della storica rivista boxistica Ring Magazine, lo definì come "il miglior peso massimo che aveva mai visto".[3] La International Boxing Hall of Fame lo ha riconosciuto fra i più grandi pugili di ogni tempo.
In un documentario sulla sua vita, il regista Ken Burns affermò che "per più di tredici anni, Jack Johnson fu il più famoso afroamericano sulla Terra".[4][5] La sua vita ispirò il film Per salire più in basso, con James Earl Jones, uscito nel 1970. L'anno seguente il jazzista Miles Davis dedicò in suo onore l'album A Tribute to Jack Johnson, registrato come colonna sonora per il documentario con lo stesso titolo.