Nella storia della Chiesa, per pentarchia (dal greco πενταρχία, da πέντε cinque + ἄρχω governare) s'intende la teoria secondo la quale il governo della cristianità intera era affidato congiuntamente alle cinque sedi episcopali più importanti del mondo romano: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, e Gerusalemme.[1][2] Secondo tale teoria la loro unanimità era richiesta per rendere pienamente obbligatorio un pronunciamento ecclesiastico[3] e un concilio non era ecumenico senza il consenso di tutti e cinque i patriarcati.[4]
Alcune volte il termine pentarchia è stato applicato all'insieme delle cinque grandi circoscrizioni ecclesiastiche, chiamate patriarcati, che a partire dal V secolo esistevano all'interno dell'impero romano, attribuendo ad ognuna di esse funzioni interne riguardanti il proprio territorio canonico.
Letteralmente però, il termine pentarchia significa potere esercitato collettivamente da cinque persone.[5] Applicato al contesto della storia ecclesiastica esso significa dunque non la mera esistenza dei singoli patriarcati e la loro coesistenza ma il concetto di essi quale governo collegiale della Chiesa cristiana (organizzata nell'Impero romano e ad esso adattata).
Tale concetto non è stato mai altro che una teoria – si afferma nel libro The A to Z of the Orthodox Church – e la sua applicazione nell'Impero romano a partire dalla legislazione di Giustiniano I era un mero artificio, dato che la controversia cristologica associata con il Concilio di Calcedonia (451) aveva già rimosso dalla comunione il patriarcato di Alessandria e aveva fatalmente indebolito quello di Antiochia. Inoltre la Chiesa di Roma non ha mai accettato l'idea – più o meno sottesa in tale teoria – della fondamentale parità dei cinque patriarchi, precedenza a parte.[3]