La poesia sonora è una forma di espressione artistica interdisciplinare, dove la vocalità, talora applicata alla scrittura, talora svincolata da essa, svolge un ruolo di primo piano, connettendosi anche con forme espressive visive, gestuali, musicali.[1]
La poesia sonora può essere collocata a pieno titolo nel quadro delle ricerche intermediali, ovvero, come teorizzato da Dick Higgins nel 1961,[2] quelle forme espressive nelle quali le diverse discipline artistiche si intrecciano in una struttura unica e inscindibile così come avviene per la poesia visuale. Questo la differenzia dalle opere multimediali, dove differenti linguaggi sovrapposti non sono mai rigidamente insostituibili.
Il poeta sonoro, per il quale le tecnologie elettroacustiche ed elettroniche costituiscono un essenziale supporto strumentale, agisce nello spazio acustico e figurale (ora anche in quello virtuale) attuando un progetto poetico articolato e complesso, aperto alle intersezioni linguistiche, alle contaminazioni, alla percezione multisensoriale, alla dimensione articolata della performance. In questo senso si può parlare anche di poesia totale.[3]
Le sperimentazioni fonetiche e l'inventiva declamatoria coltivate in seno alle avanguardie del primo Novecento costituiscono le fondamentali premesse di questa poesia della voce.
La qualità sonora del testo viene alla ribalta con i futuristi e si scarica con prepotenza sulle platee attraverso la “declamazione dinamica”,[4] alimentata dall'onomatopea che pervade le “parole in libertà” di Filippo Tommaso Marinetti, i “rumori plastici” di Giacomo Balla, la “poesia pentagrammata” di Francesco Cangiullo, la “verbalizzazione astratta” e l'“onomalingua” di Fortunato Depero.[5]
In Russia Velimir Chlebnikov e Aleksej Kručënych inclusero nei loro testi successioni sonore inusitate attraverso sovvertimenti sintattici, rivoluzione del lessico, articolazioni fonematiche astratte, armonie sghembe e vibrazioni “transmentali” secondo la sintassi della zaum': una nuova lingua specificamente poetica in cui il suono svolge un ruolo di primo piano.[6] Vladimir Majakovskij[7] contribuisce al clima di quelle ricerche con una sorta di scomposizione cubista della parola che tende ad un'acustica dissonante.
Nel campo della creazione fonetica furono fondamentali i contributi dei dadaisti[8] Hugo Ball, Raoul Hausmann e Kurt Schwitters, autore del manifesto della Poesia coerente, nel quale dichiara che il materiale della poesia è la lettera e non la parola. Schwitters anticipa, così, per certi aspetti la poesia lettrista, teorizzata nel 1942 da Isidore Isou, il quale, proclamata la sua sfiducia verso una parola consumata e inadeguata ai tempi, ne propose il superamento ponendo la lettera alla base della nuova poesia e individuando in essa un valore oggettuale da considerare come unità grafico-fonetica.[9] François Dufrêne fu tra i primi ad aderire al movimento; successivamente si uniranno al gruppo Gil Wolman, Jean-Louis Brau, Maurice Lemaître.
Un ruolo significativo per lo sviluppo della tecnica del contrappunto verbo-fonico assumono le esperienze “simultaneiste” di Pierre Albert-Birot e, in particolare, di Henri-Martin Barzun, fondatore della scuola orfica (1912),[10] di cui fanno parte, tra gli altri, Fernand Divoire, Sébastien Voirol e Guillaume Apollinaire. Il simultaneismo è ripreso anche dallo svizzero Arthur Pétronio, figura composita di poeta e musicista, che introduce nel 1953 la verbophonie,[11] forma compositiva dove l'elemento polifonico si arricchisce di suoni e di rumori.
Vengono spesso ricondotte alla sperimentazione fonetico-sonora anche opere che nella tessitura testuale privilegiano il “nonsense”, la glossolalia e le tecniche di collage di tipo ritmico, così come i cosiddetti poemi fatici, dove il testo è subordinato al senso dell'intonazione e allo spessore della qualità vocale, come in Per farla finita col giudizio di Dio di Antonin Artaud.[12]
È solo nel 1958 che Jacques de la Villeglé introduce sulle pagine della rivista Grâmmes il termine "poésie sonore" riferendosi alle composizioni del poeta francese François Dufrêne, note come “crirythmes”.
La poesia sonora, propriamente detta, nasce alla fine degli anni cinquanta dall'incontro delle sperimentazioni fonetiche con le tecnologie magnetofoniche.
Utilizzando le tecniche di registrazione su nastro, il poeta può finalmente individuare nuovi spazi espressivi. Con il montaggio audio (che, nell'immediato dopoguerra, il musicista Pierre Schaeffer[13] non aveva potuto mettere in pratica con il magnetofono a filo), si diffondono le tecniche del collage e del décollage in analogia con quanto già avveniva nelle arti visive.
Da qui scaturiscono il cut-up di Brion Gysin nel 1959 (idea ripresa poi da William Burroughs)[14] e la vasta gamma delle prove tecniche di tutta una schiera di nuovi poeti, artisti della voce e della parola, del suono e del gesto, primi fra tutti Henri Chopin,[15] che dal 1957 utilizza echi, riverberi e variatori di velocità per il trattamento della materia sonora, e Bernard Heidsieck, che, dal 1959, canalizza i suoi poèmes-partitions nel multipista.[16]
"Con le ricerche elettroniche - scrive Henri Chopin - la voce è diventata finalmente concreta".[17] L'aggettivazione appare particolarmente calzante per le opere dei tedeschi Franz Mon e Carlfriedrich Claus, dell'austriaco Gerhard Rühm, dell'inglese Bob Cobbing, del fiammingo Paul De Vree e del boemo Ladislav Novák. Un particolare trattamento iterativo del testo produce stratificazioni sonore poliritmiche nelle opere degli svedesi Sten Hanson, Bengt Emil Johnson, dei poeti del centro Fylkingen di Stoccolma e dello statunitense Charles Amirkhanian.[18]
Sono ancora da ricordare per la qualità del loro lavoro i francesi Ilse e Pierre Garnier, autori del “souffle manifeste”,[19] Julien Blaine,[20] gli americani John Giorno, Richard Kostelanetz e Larry Wendt, il gruppo canadese dei Four Horsemen con Steve Mc Caffery, Paul Dutton, Raphael Barreto-Rivera e bp Nichol, lo spagnolo Bartolomé Ferrando, il russo Valeri Scherstjanoi, l'ungherese Endre Szkàrosi, lo svizzero Vincent Barras. In Italia sono da citare almeno Adriano Spatola e Giulia Niccolai, al quale si deve Baobab (1979), prima audiorivista di poesia sonora italiana, Maurizio Nannucci che negli anni sessanta utilizza la voce per le sue esperienze di musica elettronica e nel 1975 pubblica con la Cbs "Poesia Sonora / Antologia internazionale di ricerche fonetiche", Arrigo Lora Totino, inventore della “poesia liquida” e “ginnica”, Mimmo Rotella, autore del “manifesto dell'epistaltismo”, Giovanni Fontana, teorico della “poesia pre-testuale”[21] e della “poesia epigenetica”,[22] Enzo Minarelli, teorico della "polipoesia", e ancora Patrizia Vicinelli,[23] Luigi Pasotelli,[24] Giuliano Zosi, Sarenco, Massimo Mori, Gian Paolo Roffi, Sergio Cena, Gian Pio Torricelli.