«…tutti amarono l'arte con geniale sfrenatezza; la vita uccise i migliori.»
....Un primo segnale di ribbellione fu espressa dal movimento degli scapigliati (un gruppo di poeti che manifestavano propria insofferenza attraverso un arte contestatrice). La scapigliatura fu un gruppo artistico e letterario sviluppatosi nell'Italia settentrionale a partire dagli anni sessanta dell'Ottocento; ebbe il suo epicentro a Milano e si andò poi affermando in tutta la penisola. Il termine fu proposto per la prima volta da Cletto Arrighi (anagramma di Carlo Righetti) nel suo romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio, pubblicato nel 1862, ed è la libera traduzione del termine francese bohème (vita da zingari), che si riferiva alla vita disordinata e anticonformista degli artisti, parigini, riconosciuti per la loro capigliatura anarchica descritta nel romanzo di Henri Murger, Scènes de la vie de Bohème (1847-1849). Contro il romanticismo italiano maggioritario (Manzoni, Berchet, D'Azeglio), recuperarono le suggestioni del romanticismo straniero e diffusero il gusto del naturalismo francese nascente e del maledettismo alla Baudelaire, anticipando verismo e decadentismo.
Marco Valsecchi in ha scritto che la Scapigliatura, «rispetto al parallelo francese di bohème, presenta un vantaggio innegabile e preminente; quello di non significare soltanto una difficile e fortunosa, anche se molte volte volontaria e scanzonata, condizione di vita; ma di coincidere con un preciso modo di essere sul piano dell'arte, che è più essenziale e conta più a lungo».[2] Sostanzialmente lo stile mirava ad affrontare «il problema di una maggiore verità di pittura» che, a quel tempo, «degenerava troppo spesso in un virtuosismo esteriore».[3]