Vittorio Emanuele Giuntella (Soriano nel Cimino, 8 luglio 1913 – Roma, 27 novembre 1996) è stato uno storico e militare italiano.
Così Giuntella narra[1] l'esperienza della deportazione:
«Gli ebrei erano molto pochi; a Lipsia, nel settembre del 1943, alla nostra tradotta di carri bestiame si era affiancata un’altra tradotta, piena di donne e bambini. Noi eravamo militari e non ci sembrava strano esser fatti prigionieri dai tedeschi; ma rimanemmo molto scossi a vedere donne e bambini che non potevano che essere ebrei. Non riuscimmo a parlare, cosa che invece accadde poi nel secondo campo a Deblin Irena, dove al di là del nostro reticolato c’era un muro, al di là del quale c’erano delle ebree che si dicevano superstiti (per il momento) al massacro del ghetto di Varsavia. Parlando in francese, cercavamo di tranquillizzarle, dicendo che sarebbe finita la guerra, anche perché in Italia non avevamo saputo nulla dei lager nazisti e non sapevamo nulla della persecuzione degli ebrei (e questo era molto grave); e queste ci raccontavano che cosa era successo nel ghetto di Varsavia.
Quando fummo trasferiti in un altro lager, ormai i sovietici erano assai vicini; due o tre mesi dopo ci trasferirono, e mentre eravamo alla stazione di Varsavia sentimmo delle esplosioni molto forti; i polacchi - che sono terribilmente antisemiti - venivano a portare qualcosa da mangiare, e i tedeschi sparavano. La nostra salvezza negli ultimi giorni furono alcuni ufficiali francesi, che erano stati evacuati con noi; con gli italiani, infatti, avrebbero potuto fare quello che volevano (ed infatti arrivò l’ordine di farci fuori tutti quanti, come sapemmo dopo). Infine arrivammo a Bergen Belsen, dove due mesi prima era morta Anna Frank e dove si continuava a morire; incontrammo un piccolo gruppo di ebrei di Rodi, che si consideravano cittadini italiani. ...»